Chapter 28: Of the Punishment of Death - Della pena di morte
Questa inutile prodigalità di supplicii, che non ha mai resi
migliori gli uomini, mi ha
spinto ad esaminare se la morte sia veramente utile e giusta in un governo
bene organizzato. Qual
può essere il diritto che si attribuiscono gli uomini di trucidare i
loro simili? Non certamente
quello da cui risulta la sovranità e le leggi. Esse non sono che una
somma di minime
porzioni della privata libertà di ciascuno; esse rappresentano la
volontà generale,
che è l'aggregato delle particolari. Chi è mai colui che
abbia voluto lasciare ad
altri uomini l'arbitrio di ucciderlo? Come mai nel minimo sacrificio della
libertà di
ciascuno vi può essere quello del massimo tra tutti i beni, la vita?
E se ciò fu fatto, come si
accorda un tal principio coll'altro, che l'uomo non è padrone di
uccidersi, e doveva
esserlo se ha potuto dare altrui questo diritto o alla società
intera?
Non è dunque la pena di morte un diritto, mentre ho dimostrato che
tale essere non può,
ma è una guerra della nazione con un cittadino, perché
giudica necessaria o utile
la distruzione del suo essere. Ma se dimostrerò non essere la morte
né utile né
necessaria, avrò vinto la causa dell'umanità.
La morte di un cittadino non può credersi necessaria che per due
motivi. Il primo, quando anche
privo di libertà egli abbia ancora tali relazioni e tal potenza che
interessi la sicurezza
della nazione; quando la sua esistenza possa produrre una rivoluzione
pericolosa nella forma di
governo stabilita. La morte di qualche cittadino divien dunque necessaria
quando la nazione
ricupera o perde la sua libertà, o nel tempo dell'anarchia, quando i
disordini stessi
tengon luogo di leggi; ma durante il tranquillo regno delle leggi, in una
forma di governo per
la quale i voti della nazione siano riuniti, ben munita al di fuori e al di
dentro dalla forza e dalla
opinione, forse pií efficace della forza medesima, dove il comando
non è che presso il
vero sovrano, dove le ricchezze comprano piaceri e non autorità, io
non veggo
necessità alcuna di distruggere un cittadino, se non quando la di
lui morte fosse il vero
ed unico freno per distogliere gli altri dal commettere delitti, secondo
motivo per cui può
credersi giusta e necessaria la pena di morte.
Quando la sperienza di tutt'i secoli, nei quali l'ultimo supplicio non ha
mai distolti gli uomini
determinati dall'offendere la società, quando l'esempio dei
cittadini romani, e vent'anni
di regno dell'imperatrice Elisabetta di Moscovia, nei quali diede ai padri
dei popoli quest'illustre
esempio, che equivale almeno a molte conquiste comprate col sangue dei
figli della patria, non
persuadessero gli uomini, a cui il linguaggio della ragione è sempre
sospetto ed efficace
quello dell'autorità, basta consultare la natura dell'uomo per
sentire la verità
della mia assersione.
Non è l'intensione della pena che fa il maggior effetto sull'animo
umano, ma l'estensione
di essa; perché la nostra sensibilità è pií
facilmente e stabilmente mossa
da minime ma replicate impressioni che da un forte ma passeggiero
movimento. L'impero
dell'abitudine è universale sopra ogni essere che sente, e come
l'uomo parla e cammina
e procacciasi i suoi bisogni col di lei aiuto, cosí l'idee morali
non si stampano nella mente che
per durevoli ed iterate percosse. Non è il terribile ma passeggiero
spettacolo della morte
di uno scellerato, ma il lungo e stentato esempio di un uomo privo di
libertà, che,
divenuto bestia di servigio, ricompensa colle sue fatiche quella
società che ha offesa, che
è il freno pií forte contro i delitti. Quell'efficace,
perché spessissimo ripetuto
ritorno sopra di noi medesimi, io stesso sarò ridotto a cosí
lunga e misera condizione se
commetterò simili misfatti, è assai pií possente che
non l'idea della morte, che gli uomini
veggon sempre in una oscura lontananza.
La pena di morte fa un'impressione che colla sua forza non supplisce alla
pronta dimenticanza,
naturale all'uomo anche nelle cose pií essenziali, ed accelerata
dalle passioni. Regola generale:
le passioni violenti sorprendono gli uomini, ma non per lungo tempo, e
però sono atte a fare
quelle rivoluzioni che di uomini comuni ne fanno o dei Persiani o dei
Lacedemoni; ma in un
libero e tranquillo governo le impressioni debbono essere pií
frequenti che forti.
La pena di morte diviene uno spettacolo per la maggior parte e un oggetto
di compassione mista
di sdegno per alcuni; ambidue questi sentimenti occupano pií l'animo
degli spettatori che non
il salutare terrore che la legge pretende inspirare. Ma nelle pene moderate
e continue il
sentimento dominante è l'ultimo perché è il solo. Il
limite che fissar
dovrebbe il legislatore al rigore delle pene sembra consistere nel
sentimento di compassione,
quando comincia a prevalere su di ogni altro nell'animo degli spettatori
d'un supplicio pií fatto
per essi che per il reo.
Perché una pena sia giusta non deve avere che quei soli gradi
d'intensione che bastano
a rimuovere gli uomini dai delitti; ora non vi è alcuno che,
riflettendovi, scieglier possa
la totale e perpetua perdita della propria libertà per quanto
avvantaggioso possa essere
un delitto: dunque l'intensione della pena di schiavitú perpetua
sostituita alla pena di
morte ha ciò che basta per rimuovere qualunque animo determinato;
aggiungo che ha di pií:
moltissimi risguardano la morte con viso tranquillo e fermo, chi per
fanatismo, chi per
vanità, che quasi sempre accompagna l'uomo al di là dalla
tomba, chi per un
ultimo e disperato tentativo o di non vivere o di sortir di miseria; ma
né il fanatismo
né la vanità stanno fra i ceppi o le catene, sotto il
bastone, sotto il giogo, in una
gabbia di ferro, e il disperato non finisce i suoi mali, ma gli comincia.
L'animo nostro resiste
pií alla violenza ed agli estremi ma passeggieri dolori che al tempo
ed all'incessante noia;
perché egli può per dir cosí condensar tutto se stesso
per un momento per respinger i
primi, ma la vigorosa di lui elasticità non basta a resistere alla
lunga e ripetuta azione
dei secondi. Colla pena di morte ogni esempio che si dà alla nazione
suppone un delitto;
nella pena di schiavitú perpetua un sol delitto dà moltissimi
e durevoli esempi,
e se egli è importante che gli uomini veggano spesso il poter delle
leggi, le pene di morte
non debbono essere molto distanti fra di loro: dunque suppongono la
frequenza dei delitti,
dunque perché questo supplicio sia utile bisogna che non faccia su
gli uomini tutta
l'impressione che far dovrebbe, cioè che sia utile e non utile nel
medesimo tempo. Chi
dicesse che la schiavitú perpetua è dolorosa quanto la morte,
e perciò egualmente
crudele, io risponderò che sommando tutti i momenti infelici della
schiavitú lo
sarà forse anche di pií, ma questi sono stesi sopra tutta la
vita, e quella esercita tutta la
sua forza in un momento; ed è questo il vantaggio della pena di
schiavitú, che
spaventa pií chi la vede che chi la soffre; perché il primo
considera tutta la somma dei
momenti infelici, ed il secondo è dall'infelicità del momento
presente distratto
dalla futura. Tutti i mali s'ingrandiscono nell'immaginazione, e chi soffre
trova delle risorse e
delle consolazioni non conosciute e non credute dagli spettatori, che
sostituiscono la propria
sensibilità all'animo incallito dell'infelice.
Ecco presso a poco il ragionamento che fa un ladro o un assassino, i quali
non hanno altro
contrappeso per non violare le leggi che la forca o la ruota. So che lo
sviluppare i sentimenti del
proprio animo è un'arte che s'apprende colla educazione; ma
perché un ladro non
renderebbe bene i suoi principii, non per ciò essi agiscon meno.
Quali sono queste leggi ch'io
debbo rispettare, che lasciano un cosí grande intervallo tra me e il
ricco? Egli mi nega un soldo
che li cerco, e si scusa col comandarmi un travaglio che non conosce. Chi
ha fatte queste leggi?
Uomini ricchi e potenti, che non si sono mai degnati visitare le squallide
capanne del povero,
che non hanno mai diviso un ammuffito pane fralle innocenti grida degli
affamati figliuoli e le
lagrime della moglie. Rompiamo questi legami fatali alla maggior parte ed
utili ad alcuni pochi
ed indolenti tiranni, attacchiamo l'ingiustizia nella sua sorgente.
Ritornerò nel mio stato
d'indipendenza naturale, vivrò libero e felice per qualche tempo coi
frutti del mio coraggio e
della mia industria, verrà forse il giorno del dolore e del
pentimento, ma sarà
breve questo tempo, ed avrò un giorno di stento per molti anni di
libertà e di piaceri.
Re di un piccol numero, correggerò gli errori della fortuna, e
vedrò questi tiranni impallidire
e palpitare alla presenza di colui che con un insultante fasto posponevano
ai loro cavalli, ai loro
cani. Allora la religione si affaccia alla mente dello scellerato, che
abusa di tutto, e
presentandogli un facile pentimento ed una quasi certezza di eterna
felicità, diminuisce
di molto l'orrore di quell'ultima tragedia.
Ma colui che si vede avanti agli occhi un gran numero d'anni, o anche tutto
il corso della vita
che passerebbe nella schiavitú e nel dolore in faccia a' suoi
concittadini, co' quali vive
libero e sociabile, schiavo di quelle leggi dalle quali era protetto, fa un
utile paragone di tutto
ciò coll'incertezza dell'esito de' suoi delitti, colla
brevità del tempo di cui ne goderebbe
i frutti. L'esempio continuo di quelli che attualmente vede vittime della
propria inavvedutezza,
gli fa una impressione assai pií forte che non lo spettacolo di un
supplicio che lo indurisce pií
che non lo corregge.
Non è utile la pena di morte per l'esempio di atrocità che
dà agli uomini.
Se le passioni o la necessità della guerra hanno insegnato a
spargere il sangue umano,
le leggi moderatrici della condotta degli uomini non dovrebbono aumentare
il fiero esempio,
tanto pií funesto quanto la morte legale è data con istudio e
con formalità. Parmi
un assurdo che le leggi, che sono l'espressione della pubblica
volontà, che detestano e
puniscono l'omicidio, ne commettono uno esse medesime, e, per allontanare i
cittadini
dall'assassinio, ordinino un pubblico assassinio. Quali sono le vere e le
pií utili leggi? Quei patti
e quelle condizioni che tutti vorrebbero osservare e proporre, mentre tace
la voce sempre
ascoltata dell'interesse privato o si combina con quello del pubblico.
Quali sono i sentimenti di
ciascuno sulla pena di morte? Leggiamoli negli atti d'indegnazione e di
disprezzo con cui
ciascuno guarda il carnefice, che è pure un innocente esecutore
della pubblica
volontà, un buon cittadino che contribuisce al ben pubblico, lo
stromento necessario alla
pubblica sicurezza al di dentro, come i valorosi soldati al di fuori. Qual
è dunque
l'origine di questa contradizione? E perché è indelebile
negli uomini questo
sentimento ad onta della ragione? Perché gli uomini nel pií
secreto dei loro animi, parte
che pií d'ogn'altra conserva ancor la forma originale della vecchia
natura, hanno sempre creduto
non essere la vita propria in potestà di alcuno fuori che della
necessità, che col
suo scettro di ferro regge l'universo.
Che debbon pensare gli uomini nel vedere i savi magistrati e i gravi
sacerdoti della giustizia, che
con indifferente tranquillità fanno strascinare con lento apparato
un reo alla morte, e
mentre un misero spasima nelle ultime angosce, aspettando il colpo fatale,
passa il giudice con
insensibile freddezza, e fors'anche con segreta compiacenza della propria
autorità, a
gustare i comodi e i piaceri della vita? Ah!, diranno essi, queste leggi
non sono che i pretesti
della forza e le meditate e crudeli formalità della giustizia; non
sono che un linguaggio
di convenzione per immolarci con maggiore sicurezza, come vittime destinate
in sacrificio,
all'idolo insaziabile del dispotismo. L'assassinio, che ci vien predicato
come un terribile misfatto,
lo veggiamo pure senza ripugnanza e senza furore adoperato. Prevalghiamoci
dell'esempio. Ci
pareva la morte violenta una scena terribile nelle descrizioni che ci
venivan fatte, ma lo
veggiamo un affare di momento. Quanto lo sarà meno in chi, non
aspettandola, ne
risparmia quasi tutto ciò che ha di doloroso! Tali sono i funesti
paralogismi che, se non con
chiarezza, confusamente almeno, fanno gli uomini disposti a' delitti, ne'
quali, come abbiam
veduto, l'abuso della religione può pií che la religione
medesima.
Se mi si opponesse l'esempio di quasi tutt'i secoli e di quasi tutte le
nazioni, che hanno data pena
di morte ad alcuni delitti, io risponderò che egli si annienta in
faccia alla verità, contro
della quale non vi ha prescrizione; che la storia degli uomini ci dà
l'idea di un immenso
pelago di errori, fra i quali poche e confuse, e a grandi intervalli
distanti, verità
soprannuotano. Gli umani sacrifici furon comuni a quasi tutte le nazioni, e
chi oserà
scusargli? Che alcune poche società, e per poco tempo solamente, si
sieno astenute dal
dare la morte, ciò mi è piuttosto favorevole che contrario,
perché ciò è
conforme alla fortuna delle grandi verità, la durata delle quali non
è che un
lampo, in paragone della lunga e tenebrosa notte che involge gli uomini.
Non è ancor
giunta l'epoca fortunata, in cui la verità, come finora l'errore,
appartenga al pií gran
numero, e da questa legge universale non ne sono andate esenti fin ora che
le sole verità
che la Sapienza infinita ha voluto divider dalle altre col rivelarle.
La voce di un filosofo è troppo debole contro i tumulti e le grida
di tanti che son guidati
dalla cieca consuetudine, ma i pochi saggi che sono sparsi sulla faccia
della terra mi faranno eco
nell'intimo de' loro cuori; e se la verità potesse, fra gl'infiniti
ostacoli che l'allontanano
da un monarca, mal grado suo, giungere fino al suo trono, sappia che ella
vi arriva co' voti
segreti di tutti gli uomini, sappia che tacerà in faccia a lui la
sanguinosa fama dei
conquistatori e che la giusta posterità gli assegna il primo luogo
fra i pacifici trofei dei
Titi, degli Antonini e dei Traiani.
Felice l'umanità, se per la prima volta le si dettassero leggi, ora
che veggiamo riposti
su i troni di Europa monarchi benefici, animatori delle pacifiche
virtí, delle scienze, delle arti,
padri de' loro popoli, cittadini coronati, l'aumento dell'autorità
de' quali forma la
felicità de' sudditi perché toglie quell'intermediario
dispotismo pií crudele,
perché men sicuro, da cui venivano soffogati i voti sempre sinceri
del popolo e sempre
fausti quando posson giungere al trono! Se essi, dico, lascian sussistere
le antiche leggi, ciò nasce
dalla difficoltà infinita di togliere dagli errori la venerata
ruggine di molti secoli, ciò
è un motivo per i cittadini illuminati di desiderare con maggiore
ardore il continuo
accrescimento della loro autorità.
The useless profusion of punishments, which has never made men better
induces me to inquire, whether the punishment of death be really just or
useful in a well governed state? What right, I ask, have men to cut the
throats of their fellow-creatures? Certainly not that on which the
sovereignty and laws are founded. The laws, as I have said before, are only
the sum of the smallest portions of the private liberty of each individual,
and represent the general will, which is the aggregate of that of each
individual. Did any one ever give to others the right of taking away his
life? Is it possible that, in the smallest portions of the liberty of each,
sacrificed to the good of the public, can be contained the greatest of all
good, life? If it were so, how shall it be reconciled to the maxim which
tells us, that a man has no right to kill himself, which he certainly must
have, if he could give it away to another?
(¶ 28.2)
But the punishment of death is not authorised by any right; for I have
demonstrated that no such right exists. It is therefore a war of a whole
nation against a citizen whose destruction they consider as necessary or
useful to the general good. But if I can further demonstrate that it is
neither necessary nor useful, I shall have gained the cause of humanity.
(¶ 28.3)
The death of a citizen cannot be necessary but in one case: when, though
deprived of his liberty, he has such power and connections as may endanger
the security of the nation; when his existence may produce a dangerous
revolution in the established form of government. But, even in this case,
it can only be necessary when a nation is on the verge of recovering or
losing its liberty, or in times of absolute anarchy, when the disorders
themselves hold the place of laws: but in a reign of tranquillity, in a
form of government approved by the united wishes of the nation, in a state
well fortified from enemies without and supported by strength within, and
opinion, perhaps more efficacious, where all power is lodged in the hands
of a true sovereign, where riches can purchase pleasures and not authority,
there can be no necessity for taking away the life of a subject.
(¶ 28.4)
If the experience of all ages be not sufficient to prove, that the
punishment of death has never prevented determined men from injuring
society, if the example of the Romans, if twenty years' reign of Elizabeth,
empress of Russia, in which she gave the fathers of their country an
example more illustrious than many conquests bought with blood; if, I say,
all this be not sufficient to persuade mankind, who always suspect the
voice of reason, and who choose rather to be led by authority, let us
consult human nature in proof of my assertion.
(¶ 28.5)
It is not the intenseness of the pain that has the greatest effect on the
mind, but its continuance; for our sensibility is more easily and more
powerfully affected by weak but repeated impressions, than by a violent but
momentary impulse. The power of habit is universal over every sensible
being. As it is by that we learn to speak, to walk, and to satisfy our
necessities, so the ideas of morality are stamped on our minds by repeated
impression. The death of a criminal is a terrible but momentary spectacle,
and therefore a less efficacious method of deterring others than the
continued example of a man deprived of his liberty, condemned, as a beast
of burden, to repair, by his labour, the injury he has done to society, If
I commit such a crime, says the spectator to himself, I shall be reduced to
that miserable condition for the rest of my life. A much more powerful
preventive than the fear of death which men always behold in distant
obscurity.
(¶ 28.6)
The terrors of death make so slight an impression, that it has not force
enough to withstand the forgetfulness natural to mankind, even in the most
essential things, especially when assisted by the passions. Violent
impressions surprise us, but their effect is momentary; they are fit to
produce those revolutions which instantly transform a common man into a
Lacedaemonian or a Persian; but in a free and quiet government they ought
to be rather frequent than strong.
(¶ 28.7)
The execution of a criminal is to the multitude a spectacle which in some
excites compassion mixed with indignation. These sentiments occupy the mind
much more than that salutary terror which the laws endeavor to inspire;
but, in the contemplation of continued suffering, terror is the only, or at
least predominant sensation. The severity of a punishment should be just
sufficient to excite compassion in the spectators, as it is intended more
for them than for the criminal.